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Kusha è una bimba della Nubia, strappata alla sua Africa e venduta come schiava a una famiglia patrizia romana. È bravissima a creare piccoli gioielli incantevoli con un pugno di perle di vetro e qualche laccio di cuoio; e ben presto grazie alla sua arte conquista tutte le femmine della famiglia Flavia, a cui fa bellissime acconciature con trecce fermate da perle colorate. Tutte tranne Livia, che punta dall'invidia la fa incolpare del furto della sua bambola Trifena. Ma non è stata Kusha a rubare la bambola, e la verità prima o poi verrà a galla. Età di lettura: da 6 anni.

The Cold War reconsidered as a limited nuclear war\n \n \"[A] grimly important analysis of the cold war.\"-Andrew Robinson, Nature\n \n\"Inexorable clarity and care for his fellow humans mark Robert Jacobs's guide to the Cold War as a limited nuclear war, whose harms disfigure any possible future.\"-Norma Field, author of In the Realm of a Dying Emperor: Japan at Century's End\n \n In the fall of 1961, President Kennedy somberly warned Americans about deadly radioactive fallout clouds extending hundreds of miles from H-bomb detonations, yet he approved ninety-six U.S. nuclear weapon tests for 1962. Cold War nuclear testing, production, and disasters like Chernobyl and Fukushima have exposed millions to dangerous radioactive particles; these millions are the global hibakusha. Many communities continue to be plagued with dire legacies and ongoing risks: sickness and early mortality, forced displacement, uncertainty and anxiety, dislocation from ancestors and traditional lifestyles, and contamination of food sources and ecosystems.\n \n Robert A. Jacobs re-envisions the history of the Cold War as a slow nuclear war, fought on remote battlegrounds against populations powerless to prevent the contamination of their lands and bodies. His comprehensive account necessitates a profound rethinking of the meaning, costs, and legacies of our embrace of nuclear weapons and technologies.

The Cold War reconsidered as a limited nuclear war\n \n \"[A] grimly important analysis of the cold war.\"-Andrew Robinson, Nature\n \n\"Inexorable clarity and care for his fellow humans mark Robert Jacobs's guide to the Cold War as a limited nuclear war, whose harms disfigure any possible future.\"-Norma Field, author of In the Realm of a Dying Emperor: Japan at Century's End\n \n In the fall of 1961, President Kennedy somberly warned Americans about deadly radioactive fallout clouds extending hundreds of miles from H-bomb detonations, yet he approved ninety-six U.S. nuclear weapon tests for 1962. Cold War nuclear testing, production, and disasters like Chernobyl and Fukushima have exposed millions to dangerous radioactive particles; these millions are the global hibakusha. Many communities continue to be plagued with dire legacies and ongoing risks: sickness and early mortality, forced displacement, uncertainty and anxiety, dislocation from ancestors and traditional lifestyles, and contamination of food sources and ecosystems.\n \n Robert A. Jacobs re-envisions the history of the Cold War as a slow nuclear war, fought on remote battlegrounds against populations powerless to prevent the contamination of their lands and bodies. His comprehensive account necessitates a profound rethinking of the meaning, costs, and legacies of our embrace of nuclear weapons and technologies.

\"Qualcuno doveva spostare il sabbar, il cactus, in un vaso di fiori.\" Così Anton Shammas apre la sua meravigliosa prefazione a questo libro, e questo è il compito che Asim Abu Shaqra ha portato a termine più e più volte nei suoi dipinti, in una sorta di ossessione, arrestata solo dalla sua morte prematura, all'età di ventotto anni. Durante tutto il corso della sua vita, l'artista è stato ossessionato da un senso di estraneità e di non appartenenza, come manifestato dalla sua infatuazione per il sabra, che erano in realtà autoritratti legati all'iconografia palestinese. Questa pubblicazione offre nuove interpretazioni sui dipinti di Asim Abu Shaqra da parte di tre eminenti studiosi d'arte: Tal Ben-Zvi, Kamal Boullata e WJT Mitchell; comprende un'introduzione della curatrice Nira Itzhaki e una prefazione di Anton Shammas.

\"Qualcuno doveva spostare il sabbar, il cactus, in un vaso di fiori.\" Così Anton Shammas apre la sua meravigliosa prefazione a questo libro, e questo è il compito che Asim Abu Shaqra ha portato a termine più e più volte nei suoi dipinti, in una sorta di ossessione, arrestata solo dalla sua morte prematura, all'età di ventotto anni. Durante tutto il corso della sua vita, l'artista è stato ossessionato da un senso di estraneità e di non appartenenza, come manifestato dalla sua infatuazione per il sabra, che erano in realtà autoritratti legati all'iconografia palestinese. Questa pubblicazione offre nuove interpretazioni sui dipinti di Asim Abu Shaqra da parte di tre eminenti studiosi d'arte: Tal Ben-Zvi, Kamal Boullata e WJT Mitchell; comprende un'introduzione della curatrice Nira Itzhaki e una prefazione di Anton Shammas.

Quante persone non riescono a dialogare o scelgono il silenzio perché non si fidano o perché vedono le proprie parole cadere nel vuoto. E quante perché non hanno il coraggio di ribellarsi. Può una donna di nazionalità e cultura distante da quella italiana aprire il cuore e lenire i dolori. Urlare con dolcezza che si può e si deve cercare la libertà e volare via attraverso i sogni: i sogni come via di fuga, come atto di resilienza. In questo libro, alquanto atipico, una donna di tarda età, Milvia Moretti, che ha vissuto con impegno civile e politico tutta la propria vita, risponde. O forse ragiona sulle parole e riflette e guarda dentro e fuori di sé. Con aforismi e audiolibro in italiano e albanese testo a fronte.

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SHORTLISTED FOR THE ONDAATJE PRIZE\nSHORTLISTED FOR THE STANFORD DOLMAN TRAVEL WRITING PRIZE\n\n'Witty, polished, honest and insightful, The Epic City is likely to become for Calcutta what Suketu Mehta's classic Maximum City is for Mumbai' William Dalrymple, Observer\n\nWhen Kushanava Choudhury arrived in New Jersey at the age of twelve, he had already migrated halfway around the world four times. \n\nAfter graduating from Princeton, he moved back to Calcutta, the city which his immigrant parents had abandoned. Taking a job at a newspaper, he found the streets of his childhood unchanged. Shouting hawkers still overran the footpaths, fish sellers squatted on bazaar floors; and politics still meant barricades and bus burnings. \n\nThe Epic City is a soulful, compelling and often hilarious account of this metropolis of fifteen million people that is truly a world unto itself.\n\n'A beautifully observed and even more beautifully written new study of Calcutta' Guardian